Mia Premessa per circoscrive il senso dell’indignazione.
Indignare, dal latino “in-dignàri”, significa affermare il contrario di "stimare degno". Si "stima degno", "dicevole", ciò che si trova di "ap-prezzabile" nel comportamento altrui. Pertanto è indegno quel che non si "ap-prezza", ossia che perde, agli occhi di chi giudica, il proprio valore, non solo in senso monetario, ovviamente, data la polisemia del termine "valore".
Questa è una premessa indispensabile. È infatti evidente che si apprezza ciò che accade "con merito": non a caso, il merito e l'onore devono essere "guadagnati" (occorre dare loro un prezzo, "ap-prezzarli"). E, di conseguenza, l'in-dignazione deve emergere ogniqualvolta un qualcosa di indegno viene, "in-giustamente", "ap-prezzato": dotato di valore che non possiede. L'in-dignazione risulta sinonimo di "giustizia", laddove l'essere giusto è commisurato all'essere degno di un valore riconosciuto tale e non regalato o generato invalidando altri valori. Mi indigno se vedo una ingiustizia, in quanto la stessa non è degna di rispetto, avendo violato il senso stesso di valore. Se non ci si indigna più, allora tutto è "giusto" ed accettabile: lo scontro di valori opposti si fonde nell'apatia valoriale. Indifferenza al valore. Indifferenza al senso. In-sensibilità. E l’indifferenza, come sostiene l’autore di “Indignatevi!”, è ‘il peggiore degli atteggiamenti’, perché 'è una delle componenti essenziali dell’umano, senza di che non si dà ‘la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue’.
Questa è una premessa indispensabile. È infatti evidente che si apprezza ciò che accade "con merito": non a caso, il merito e l'onore devono essere "guadagnati" (occorre dare loro un prezzo, "ap-prezzarli"). E, di conseguenza, l'in-dignazione deve emergere ogniqualvolta un qualcosa di indegno viene, "in-giustamente", "ap-prezzato": dotato di valore che non possiede. L'in-dignazione risulta sinonimo di "giustizia", laddove l'essere giusto è commisurato all'essere degno di un valore riconosciuto tale e non regalato o generato invalidando altri valori. Mi indigno se vedo una ingiustizia, in quanto la stessa non è degna di rispetto, avendo violato il senso stesso di valore. Se non ci si indigna più, allora tutto è "giusto" ed accettabile: lo scontro di valori opposti si fonde nell'apatia valoriale. Indifferenza al valore. Indifferenza al senso. In-sensibilità. E l’indifferenza, come sostiene l’autore di “Indignatevi!”, è ‘il peggiore degli atteggiamenti’, perché 'è una delle componenti essenziali dell’umano, senza di che non si dà ‘la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue’.
Che cosa vuole dirci, dunque, Stéphane Hessel, a ’93 anni’, nel suo pamphlet "Indigniamoci!"?
Firmatario dell’“Appello dei Resistenti alle giovani generazioni”, pronunciato a Parigi alla Casa dell’America Latina l’8 marzo 2004, diplomatico e capogabinetto di Henri Laugier, quest’ultimo Segretario della Commissione dei Diritti dell’Uomo, Hessel, dopo una lunga esperienza nella Resistenza francese del CNR, si trova impegnato nei lavori volti all'elaborazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.
Firmatario dell’“Appello dei Resistenti alle giovani generazioni”, pronunciato a Parigi alla Casa dell’America Latina l’8 marzo 2004, diplomatico e capogabinetto di Henri Laugier, quest’ultimo Segretario della Commissione dei Diritti dell’Uomo, Hessel, dopo una lunga esperienza nella Resistenza francese del CNR, si trova impegnato nei lavori volti all'elaborazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.
È una esperienza formante che, cumulata con le tante altre esperienze “formanti” della sua vita, definisce la logica di impegno sociale e civile che viene riproposta, in estrema sintesi, in “Indignatevi!”. Sì, perché “Indignatevi!” raccoglie, in una trentina di pagine (le altre riportano il citato Appello del 2004 e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), i punti fermi che l’autore considera essenziale trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni. Crollo dei sistemi di welfare state, espandersi del potere finanziario, guerre e migrazioni della povertà cui le Nazioni Unite e l’Europa non reagiscono come da loro mandato, la perversione dei media… il motore per non passare tutto sotto anestetizzante silenzio è, per l’autore, l’indignazione. L’indignazione ha consentito la Resistenza, ma Hessel ben sa che di tempo ne è passato e, incontrando nelle classi i ragazzi di oggi, è lucido nell’affermare: “voi non avete le ragioni evidenti che avevamo noi per decidere di agire”. Questa consapevolezza storica è il fulcro potente che regge la mozione di indignazione promossa nelle poche pagine del pamphlet. All’epoca della Seconda grande guerra, per alcuni, l’impegno civile e l’indignazione per ciò che accadeva intorno era quasi scontato o, comunque, riconoscibile. Oggi, nel nuovo Millennio, non è più così semplice: gli eventi sono ovattati e gli stimoli moltiplicati. La giustizia, come collegato dell’indignazione, può presentarsi come elemento confuso. Del resto, scrive l’autore, “il nostro è un mondo vasto, del quale intuiamo la non indipendenza. Viviamo in un contesto di interconnettività senza precedenti. […] esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo, scavare. Ai giovani io dico: cercate e troverete”. Alcuni esempi illustrano la via alla ricerca e alla reazione indignata. E le modalità cui fare fronte a mali evidenti dei nostri decenni.
Dal canto suo, Hessel, di origine ebrea, si muove molto criticamente verso il governo israeliano e gli atti disumani ed omicidi nei confronti dei palestinesi. Narra della violenza e la comprende, per giungere alla conclusione che la non violenza (attuata in modo concreto e visibile) potrebbe essere la via migliore, nel lungo periodo. Ma Hessen non è Gandhi, non è un idealista: conviene sul fatto che il terrorismo, da ambo i lati di un conflitto, “è una forma di esasperazione. E che questa esasperazione è un termine negativo. Non bisognerebbe esa-sperare, bensì sperare. L’esasperazione è un rifiuto della speranza. La si può comprendere, […] quasi è naturale, ma non per questo accettare”. Hessen si congeda con un invito all’insurrezione pacifica e con la speranza. Una speranza indignata. Perché altrimenti essa è suono vuoto e preclude ogni azione, nell’attesa di un salvatore. Che poi magari si presenterà come il prossimo dittatore.
Dal canto suo, Hessel, di origine ebrea, si muove molto criticamente verso il governo israeliano e gli atti disumani ed omicidi nei confronti dei palestinesi. Narra della violenza e la comprende, per giungere alla conclusione che la non violenza (attuata in modo concreto e visibile) potrebbe essere la via migliore, nel lungo periodo. Ma Hessen non è Gandhi, non è un idealista: conviene sul fatto che il terrorismo, da ambo i lati di un conflitto, “è una forma di esasperazione. E che questa esasperazione è un termine negativo. Non bisognerebbe esa-sperare, bensì sperare. L’esasperazione è un rifiuto della speranza. La si può comprendere, […] quasi è naturale, ma non per questo accettare”. Hessen si congeda con un invito all’insurrezione pacifica e con la speranza. Una speranza indignata. Perché altrimenti essa è suono vuoto e preclude ogni azione, nell’attesa di un salvatore. Che poi magari si presenterà come il prossimo dittatore.
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