L’opuscolo “Odio gli indifferenti” riporta una selezione di alcuni frammenti di testi di Antonio Gramsci, estratti dall’edizione degli scritti dell’autore curata da Sergio Caprioglio (studioso dell'antifascismo italiano e torinese) per Giulio Einaudi Editore titolata “La città futura. Scritti 1917-1918 (ed. 1982), integrati con il brano “Gli operai della FIAT”, incluso nella raccolta “Socialismo e Fascismo”, sempre Giulio Einaudi Editore (1996) e, in appendice, con il discorso al Camera del 16 maggio 1925, pubblicato sul numero 117 dell’“Unità” del 23 maggio 1925.
I testi qui raccolti hanno la potenza della narrazione universale, in quanto rivolta da un lato all’essere umano, al quid che qualifica l’uomo, dall’altro all’esser-ci in quanto uomini concreti, persone, vite vissute. È una narrazione universale, anche se ad ogni riga nega la sua universalità, qualora essa dovesse identificarsi nell’idealismo o nell’ideologia. Nessun idealismo e nessuna ideologia nelle parole di Gramsci che, impugnando e stringendo con forza il linguaggio, lo schiaccia verso la realtà viva, concreta, contestuale dell’agire degli uomini nella loro vita quotidiana. “È necessario potersi rappresentare concretamente […] questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato” (p. 7, corsivi miei). Oppure, parlando delle scelte di guerra dell’Italia, “le autorità italiane, quelle governative, quelle provinciali, quelle cittadine [...] non sono riuscite ad armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse ignorano la realtà, ignorano l'Italia in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. Sono retori pieni di sentimentalismo, non uomini che sentono concretamente. Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano” (p. 8, corsivi miei). Gramsci impegna il linguaggio immergendolo nella viva realtà delle cose: non a caso le espressioni sono corpose, materiali, pastose. Egli ci parla della “folla, in quanto è composta di singoli, non in quanto è popolo, idolo delle democrazie. [Le autorità] amano l’idolo, fanno soffrire il singolo individuo” (p.8, corsivi miei). E ancora, sul termine ‘demagogia’: “noi continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati” (p. 11). Insomma, per Gramsci il linguaggio solido e denso di significato denotativo (la connotazione può veicolare corruzione) è essenziale per “mettersi in azione”, perché è con esso che si può pensare e ragionare e quindi comprendere e scegliere. Sostiene lo scrittore: “Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l'uovo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopritore dell'uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità già conosciuta al cincischiarmi l'intelligenza per fabbricare paradossi brillanti, spiritosi giochi di parole, acrobatismi verbali, che fanno sorridere, ma non fanno pensare” (p. 19, corsivi miei). Ecco alcuni altri esempi di scelte lessicali che rendono ragione di quanto detto in merito alla sostanzialità dell’esprimersi: “nutrirsi, sudare, le panetterie, lo zucchero, la medicina, il vermouth, ‘pescicani’ (i fornitori militari di armi); la giardiniera plebea è sempre la minestra più nutriente e più appetitosa; larghe cucchiaiate; uomini gagliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forza della loro volontà e dei loro muscoli l'avvenire, ecc.”.
Ora, se gli scritti di Gramsci sono espressione di una forma ragionata ed attenta al reale, che più volte prende distanza dall’ideologia di partito e dalla retorica (ecco perché il messaggio di Gramsci è molto spesso universale, in quanto fondato sul buon senso e su una accurata osservazione del contesto), i contenuti rappresentano, di fatto, una poderosa intrusione nella storia dell’individuo Gramsci, osservatore acuto e portavoce d’azione del disagio italiano. Della sua epoca, certo. E, per alcune costanti che rientrano nel processo storico e nella cultura dei popoli (o, se vogliamo, delle nazioni), anche della nostra epoca contemporanea. Non a caso la selezione di scritti appare in questo turbolento inizio millennio…
La peculiarità di questo discorso attuale consiste, però, nella sua pro-attività: comprendere non basta. La comprensione deve tradursi in comunicazione con il prossimo ed in azione per tutti. Il pensiero disgiunto dall’azione, per Gramsci, non esiste. Esemplare ne è il famoso passo “Indifferenti” (si può facilmente leggere in rete, per esempio qui) come riportato in "La Città futura", pp. 1-1 Raccolto in SG, 78-80, scritto da Gramsci l'11 febbraio 1917. È questo un pezzo che è la base o, perlomeno, si rivela essere una pietra sostanziale del pensiero passionale gramsciano, mai scisso dall'agire. Perché per Gramsci la riflessione non è automaticamente azione. Potrebbe rivelarsi solo un pericoloso gioco intellettuale. Quando la riflessione produce azione, coordina le passioni degli uomini, di quelli che prendono parte alle cose, che parteggiano, che sono partigiani, ecco, solo a quel punto l'intellettuale si chiama "uomo".
Gramsci, nei suoi scritti, parteggia sempre. Non in quanto aderente ad un Partito istituzionale. Ma in quanto aderente ad un modus vivendi che dovrebbe risvegliare l’italiano intorpidito dalla facile propaganda e dalla ancora più acquietante (ed inquietante) delega del potere senza controllo, deresponsabilizzazione espressa al massimo grado. Un modus vivendi che non preclude, perché profondamente umano, l’odio (“Odio gli indifferenti”, non a caso), ma che poi, per trasformarsi in azione viva, ricca di “amore” e non solo di “passione”, deve lasciare spazio all’intelligenza. Come ben illustra David Bidussa nell’introduzione, occorre “l’intelligenza per cogliere i molti malesseri della società italiana, quelli che ancora oggi sono irrisolti: la nullità della classe politica; il trasformismo; l’assenza del senso dell’istituzione parlamentare nella coscienza pubblica; il conflitto politica-magistratura; la scuola; gli scandali; la dimensione astratta della libertà nella vita politica; il «perbenismo». Intelligenza, tuttavia, non significa solo «essere puntuti», ma anche scavare nelle parole arroganti dell’avversario e costringerlo, appunto, con l’intelligenza, sulla difensiva”, perché, riporta Bidussa, “la politica non è mai solo forza, è anche autorevolezza. E l’autorevolezza dei «senza potere» si chiama intelligenza. Persino quando si è puniti per la propria intelligenza. E il proprio coraggio”.
Gramsci fa del coraggio la ragione del vivere. Che lo condurrà a scontrarsi con Mussolini in Parlamento, dove tutta sua sarà la vittoria comunicativa, etica e anche politica. Non a caso subirà l’espulsione, come tutte le voci intelligenti che il regime fascista tenterà di mettere a tacere. Non a caso finirà in carcere. E continuerà a scrivere, per agire. Perché non basta scrivere per raccontare e lamentarsi, anzi, “alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. […] Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime” (pp. 5,6 corsivi miei).
Mi sembra quindi condivisibile e quindi estendibile, a mo’ di chiusura e raccordo con l’inizio della recensione, quanto scritto nella prefazione al testo: “A un primo sguardo, si potrebbe far rientrare questi scritti di Gramsci nella rubrica «l’Italia com’è oggi non ci piace» […]”, laddove in Gramsci si ritrova “l’adesione alla politica più che il fascino per l’antipolitica, ma anche la determinazione di parlare di una realtà concreta, di comprenderne i meccanismi. Non solo di lamentarsi. In questi scritti c’è il Paese Italia, come scriveva, inascoltato […] Ruggiero Romano. Il Paese Italia, non la nazione italiana: le cose minute, i comportamenti, i caratteri, l’alimentazione, la retorica, i tic che si hanno, le parole che si usano, le consuetudini con cui si organizza la vita associata. Una realtà che sollecita l’indagine sulla vita reale non la costruzione di proiezioni ideologiche”.
Materiali utili
I testi qui raccolti hanno la potenza della narrazione universale, in quanto rivolta da un lato all’essere umano, al quid che qualifica l’uomo, dall’altro all’esser-ci in quanto uomini concreti, persone, vite vissute. È una narrazione universale, anche se ad ogni riga nega la sua universalità, qualora essa dovesse identificarsi nell’idealismo o nell’ideologia. Nessun idealismo e nessuna ideologia nelle parole di Gramsci che, impugnando e stringendo con forza il linguaggio, lo schiaccia verso la realtà viva, concreta, contestuale dell’agire degli uomini nella loro vita quotidiana. “È necessario potersi rappresentare concretamente […] questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato” (p. 7, corsivi miei). Oppure, parlando delle scelte di guerra dell’Italia, “le autorità italiane, quelle governative, quelle provinciali, quelle cittadine [...] non sono riuscite ad armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse ignorano la realtà, ignorano l'Italia in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. Sono retori pieni di sentimentalismo, non uomini che sentono concretamente. Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano” (p. 8, corsivi miei). Gramsci impegna il linguaggio immergendolo nella viva realtà delle cose: non a caso le espressioni sono corpose, materiali, pastose. Egli ci parla della “folla, in quanto è composta di singoli, non in quanto è popolo, idolo delle democrazie. [Le autorità] amano l’idolo, fanno soffrire il singolo individuo” (p.8, corsivi miei). E ancora, sul termine ‘demagogia’: “noi continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati” (p. 11). Insomma, per Gramsci il linguaggio solido e denso di significato denotativo (la connotazione può veicolare corruzione) è essenziale per “mettersi in azione”, perché è con esso che si può pensare e ragionare e quindi comprendere e scegliere. Sostiene lo scrittore: “Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l'uovo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopritore dell'uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità già conosciuta al cincischiarmi l'intelligenza per fabbricare paradossi brillanti, spiritosi giochi di parole, acrobatismi verbali, che fanno sorridere, ma non fanno pensare” (p. 19, corsivi miei). Ecco alcuni altri esempi di scelte lessicali che rendono ragione di quanto detto in merito alla sostanzialità dell’esprimersi: “nutrirsi, sudare, le panetterie, lo zucchero, la medicina, il vermouth, ‘pescicani’ (i fornitori militari di armi); la giardiniera plebea è sempre la minestra più nutriente e più appetitosa; larghe cucchiaiate; uomini gagliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forza della loro volontà e dei loro muscoli l'avvenire, ecc.”.
Ora, se gli scritti di Gramsci sono espressione di una forma ragionata ed attenta al reale, che più volte prende distanza dall’ideologia di partito e dalla retorica (ecco perché il messaggio di Gramsci è molto spesso universale, in quanto fondato sul buon senso e su una accurata osservazione del contesto), i contenuti rappresentano, di fatto, una poderosa intrusione nella storia dell’individuo Gramsci, osservatore acuto e portavoce d’azione del disagio italiano. Della sua epoca, certo. E, per alcune costanti che rientrano nel processo storico e nella cultura dei popoli (o, se vogliamo, delle nazioni), anche della nostra epoca contemporanea. Non a caso la selezione di scritti appare in questo turbolento inizio millennio…
La peculiarità di questo discorso attuale consiste, però, nella sua pro-attività: comprendere non basta. La comprensione deve tradursi in comunicazione con il prossimo ed in azione per tutti. Il pensiero disgiunto dall’azione, per Gramsci, non esiste. Esemplare ne è il famoso passo “Indifferenti” (si può facilmente leggere in rete, per esempio qui) come riportato in "La Città futura", pp. 1-1 Raccolto in SG, 78-80, scritto da Gramsci l'11 febbraio 1917. È questo un pezzo che è la base o, perlomeno, si rivela essere una pietra sostanziale del pensiero passionale gramsciano, mai scisso dall'agire. Perché per Gramsci la riflessione non è automaticamente azione. Potrebbe rivelarsi solo un pericoloso gioco intellettuale. Quando la riflessione produce azione, coordina le passioni degli uomini, di quelli che prendono parte alle cose, che parteggiano, che sono partigiani, ecco, solo a quel punto l'intellettuale si chiama "uomo".
Gramsci, nei suoi scritti, parteggia sempre. Non in quanto aderente ad un Partito istituzionale. Ma in quanto aderente ad un modus vivendi che dovrebbe risvegliare l’italiano intorpidito dalla facile propaganda e dalla ancora più acquietante (ed inquietante) delega del potere senza controllo, deresponsabilizzazione espressa al massimo grado. Un modus vivendi che non preclude, perché profondamente umano, l’odio (“Odio gli indifferenti”, non a caso), ma che poi, per trasformarsi in azione viva, ricca di “amore” e non solo di “passione”, deve lasciare spazio all’intelligenza. Come ben illustra David Bidussa nell’introduzione, occorre “l’intelligenza per cogliere i molti malesseri della società italiana, quelli che ancora oggi sono irrisolti: la nullità della classe politica; il trasformismo; l’assenza del senso dell’istituzione parlamentare nella coscienza pubblica; il conflitto politica-magistratura; la scuola; gli scandali; la dimensione astratta della libertà nella vita politica; il «perbenismo». Intelligenza, tuttavia, non significa solo «essere puntuti», ma anche scavare nelle parole arroganti dell’avversario e costringerlo, appunto, con l’intelligenza, sulla difensiva”, perché, riporta Bidussa, “la politica non è mai solo forza, è anche autorevolezza. E l’autorevolezza dei «senza potere» si chiama intelligenza. Persino quando si è puniti per la propria intelligenza. E il proprio coraggio”.
Gramsci fa del coraggio la ragione del vivere. Che lo condurrà a scontrarsi con Mussolini in Parlamento, dove tutta sua sarà la vittoria comunicativa, etica e anche politica. Non a caso subirà l’espulsione, come tutte le voci intelligenti che il regime fascista tenterà di mettere a tacere. Non a caso finirà in carcere. E continuerà a scrivere, per agire. Perché non basta scrivere per raccontare e lamentarsi, anzi, “alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. […] Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime” (pp. 5,6 corsivi miei).
Mi sembra quindi condivisibile e quindi estendibile, a mo’ di chiusura e raccordo con l’inizio della recensione, quanto scritto nella prefazione al testo: “A un primo sguardo, si potrebbe far rientrare questi scritti di Gramsci nella rubrica «l’Italia com’è oggi non ci piace» […]”, laddove in Gramsci si ritrova “l’adesione alla politica più che il fascino per l’antipolitica, ma anche la determinazione di parlare di una realtà concreta, di comprenderne i meccanismi. Non solo di lamentarsi. In questi scritti c’è il Paese Italia, come scriveva, inascoltato […] Ruggiero Romano. Il Paese Italia, non la nazione italiana: le cose minute, i comportamenti, i caratteri, l’alimentazione, la retorica, i tic che si hanno, le parole che si usano, le consuetudini con cui si organizza la vita associata. Una realtà che sollecita l’indagine sulla vita reale non la costruzione di proiezioni ideologiche”.
Materiali utili
Presso il sito dell’editore Chiarelettere si può sfogliare un estratto del libro e ascoltare l’intervista a Davide Bidussa, che ha redatto la nitida prefazione al libro.
Presso il sito http://www.antoniogramsci.com/ si possono reperire alcuni estratti tra le pagine più belle e significative di Gramsci, in una sorta di "aggiornamento permanente" che include contributi di studiosi gramsciani, oltre a commenti e sintesi di semplici estimatori (dalla home del sito).
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