domenica 24 aprile 2011

I CASI DEL DR. HOUSE

More about I casi del Dr. HouseAndrew Holtz, giornalista scientifico, con una formazione in fisica ed in scienze della comunicazione, in questo bel libro illustra il grado di contatto con la realtà della serie televisiva "Dr. House - Medical Division". 
Si tratta di un vero e proprio reportage sull'attività tipica di una reale clinica statunitense, messa a confronto con quella che il mitico Dr. House esercita a capo di una squadra di medicina diagnostica presso il fittizio (ma non troppo, a dire il vero...) ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey. 
Il libro è bello (anche se non entusiasmante), perché in esso incontriamo i 'casi' televisivi di House ri-collocati nell'ambito delle possibilità reali che accadano e delle modalità reali con cui si può affrontarli. La peculiarità del testo sta nel cogliere lo spunto da più episodi televisivi e, grazie alle interviste ad esperti e tecnici praticanti nei campi medici più diversi, ri-fletterli alla luce delle conoscenze e dei trattamenti attuali. 
Il bello è questo: non è che i casi del Dr. House siano, in genere, incredibili o impossibili. E' piuttosto la dinamica dell'evento, dell'analisi e della soluzione del caso ad essere oggetto di correzione, spiegazione e divulgazione rigorosa verso il lettore. I casi del Dr. House, nella maggior parte, non sono fantascientifici. Sono, di fatto, "piegati" alle necessità di una fiction televisiva, con tutta la deviazione-contrazione procedurale e temporale del caso. 
Per esempio, i protocolli da seguire sono spesso assai diversi da quelli di House, tanto rispetto alla medicina, quanto alla legge... Così come i tempi per i test o per la rilevazione dei sintomi, naturalmente rimodellati in TV per condensare la suspence del telespettatore in poco più di 45 minuti. 
Questo è un punto. 
Ma il testo offre molto di più! Infatti si prefigge di spiegare come avviene oggi l'esercizio della medicina diagnostica, negli Stati Uniti, quali sono le pratiche per una diagnosi, per rilevare l'eziologia di una malattia, per effettuare una corretta diagnosi differenziale, per testare nuovi farmaci e via dicendo. L'autore ha la grande capacità di interloquire da un lato con il testo televisivo, dall'altro con il con-testo medico odierno, al fine di illustrare al lettore come funzionino gli elementi alla base di un ricovero, quali euristiche si utilizzino per circoscrivere la malattia, quale possa essere il rapporto paziente-medico, in che modo gli strumenti elettronici possano venire in aiuto all'équipe medica, quale sia il funzionamento del sistema assicurativo (statunitense), le logiche di mercato su cui si fonda il rapporto tra case farmaceutiche ed istituti, ... insomma si registra una vasta rielaborazione della serie televisiva per distillare un discorso ad essa 'analogico', ma reale. 
Il testo vero e proprio è arricchito di una serie cospicua di schede su concetti o pratiche che dovremmo conoscere, per vivere meglio il rapporto con l'ospedale e con il nostro benessere (qualche scheda: Sincopi, Oltre lo stetoscopio?, La malattia del sonno, Fantasmi, Questioni di sguardi...). In ogni scheda troviamo un elemento di un episodio (prima e seconda serie) raccontato e identificato nel rapporto che potrebbe avere con ognuno di noi: sono schede interessanti, perché intrigano, informando il lettore di quanto può esserci (o storicamente esserci stato) dietro prassi anomale o malattie mai sentite nominare. O di quanto può essere essenziale un sintomo apparentemente banale ma, se ben contestualizzato, indispensabile per intersezioni conoscitive ed indagini specifiche. 
Insomma, "I casi del Dr. House" fa parte di quella amplissima letteratura che si è sviluppata intorno al Dr. più famoso al mondo, protagonista assoluto di una serie a cui Andrew Holtz, nel caso specifico, domanda "Ma sarà tutto vero?".
Leggere per avere la risposta! :-)

sabato 16 aprile 2011

LA NATURA DELLA TECNOLOGIA

More about La natura della tecnologia"Riponiamo le nostre speranze più profonde nella tecnologia, ma ci fidiamo della natura".
Così, a pagina 5 dell'edizione italiana, Brian Arthur ci racconta di due pulsioni, speranza e fiducia, entrambi forti, che stanno "definendo l'epoca presente più di ogni altra cosa".
Un'epoca ricca di tecnologia. Però sappiamo davvero poco  su di essa. "Manca", scrive l'autore, "una teoria della tecnologia, manca la '-logia' della tecnologia". Con questa assenza entriamo nel testo.
Un testo in cui l'autore procede con uno stile serrato, ripetendo e chiarendo ogni concetto, ogni parola; affrontando sistematicamente ogni zona d'ombra, eliminando quante più ambiguità possibili che potrebbero emergere da ogni passaggio. E scrive avanzando con passi metodici e autorevoli nel dis-piegare la struttura e i principi alla base di quel termine e fenomeno difficile da "raccontarsi" che è la tecnologia. La lettura è piacevole, perché ricchissima di esempi pertinenti e illuminanti, e fluisce sì basandosi sulla ripetizione, per mezzo della quale ogni capitolo è concatenato al seguente, ma è una ripetizione con variazione, una sorta di 'Bolero letterario' che estrae dal cappuccio magico di un prestigiatore della divulgazione scientifica una serie di conoscenze sulla tecnologia che, scrive l'autore, "è troppo importante per essere lasciata agli esperti".
Brian Arthur è un ingegnere appassionato, che ha la capacità di stupirsi di fronte a ciò che evolve intorno, al mondo che muta, tra l'altro in simbiosi con una entità, la tecnologia, che è davvero complicato capire nell'essenza. E Brian Arthur è uno scrittore maledettamente bravo a riconoscere lo stupore e da quello a stupirci, con un saggio moderato, ma perentorio, potente, culturalmente radicale ed innovante. Non solo per la tecnologia in sé, che è oggetto del libro. Ma per il metodo che insegna: per studiare e per poi chiarire a se stessi e divulgare. Per il rigore cercato in ogni istante, il filo del discorso sempre teso, mai lasco, che trasforma la lettura in prima conoscenza e che, posato il libro, ti lascia la mente aperta alla scoperta e uno sguardo nuovo. Tecnologia della mente allo stato puro.
Se questo è lo stile, che si fonde con il contenuto del testo, quest'ultimo mira a definire la tecnologia, a spiegarne la nascita e, quando è il caso, l'evoluzione. Non è roba da poco. Dietro c'è un'immensa esperienza e altrettanto vasta cultura. Qui provo a dire qualcosa su quanto scritto dall'autore, limitandomi ai punti principali e alle modalità fondamentali del suo narrare... il piacere della scoperta sta nel leggere, confrontare, confutare, apprendere...
La tecnologia nasce quando si riesce ad imbrigliare dei fenomeni naturali. Di fatto, nulla è più 'naturale' della tecnologia. La quale, tuttavia, non emerge dal nulla, ma ha un suo ciclo di esistenza: ed occorre comprenderlo.
Scrive l'autore a pagina 16: "E' mia intenzione cominciare "da zero", senza dare nulla per scontato a proposito della tecnologia. Costruirò la mia argomentazione pezzo per pezzo, a partire da tre principi fondamentali: [...] le tecnologie, tutte, sono combinazioni; [...] ogni componente di una data tecnologia è in sé una tecnologia; [...] tutte le tecnologie imbrigliano, o catturano se si preferisce, e sfruttano qualche effetto o fenomeno naturale, e di solito più di uno". Tolgo subito ogni dubbio al lettore accorto: saranno anche "principi", ma l'autore non lascerà il primo e il secondo capitolo senza prima averli spiegati, discussi, dimostrati uno per uno. E' il bello di questo saggio: nel limite, non è ideo-logico, ma logico.
Partendo da zero, Brian Arthur inizia a delimitare l'oggetto di indagine con delle definizioni, tutte descritte e circoscritte; poi illustra il metodo che seguirà nel testo, ed alcuni attrezzi utili tanto in ingegneria quanto in letteratura, per non dire nella vita quotidiana! Alcuni concetti-metodo ricorrenti saranno la 'ricorsività', la 'ri-configurabilita', 'modularità', 'architettura operativa', 'principio combinatorio', 'auto-similarità'... e via dicendo.
Io riassumo sostenendo che, banalmente, ci sono due modi per analizzare i fenomeni o gli oggetti.
Il primo consiste nell'analizzare, cioè scomporre il fenomeno o l'oggetto, al fine di ridurlo alle componenti minime, nelle quali l'analisi si risolve e si conclude, fornendo una fenomenologia precisa e monadica del componente.
Il secondo consiste nell'analizzare, cioè scomporre il fenomeno o l'oggetto, in parti minime, al fine di ricondurle in una più ampia rete di relazioni entro cui i componenti, così artificiosamente separati, si ricollocano per dare il senso del fenomeno o dell'oggetto che li comprende, senso che è ulteriore rispetto alla sommatoria dei sensi delle parti minime prese a sé stanti, senza l'immersione "nelle relazioni".
Ecco, Brian Arthur segue la seconda via: un'analisi estrema e dettagliata del componente una struttura per comprendere l'organizzazione della struttura, il suo nascere ed il suo evolversi. L'analisi è graduale, prevede delle intra-strutture che informano le strutture al livello superiore: è il caso dei "domini tecnologici" definiti dall'autore quali raggruppamenti, corpi di tecnologie. Combinando e ricombinando domini, intersecandoli, la tecnologia cambia. Nel processo storico, medesime funzioni possono essere riformulate in domini diversi: questo è il nocciolo dell'innovazione. Innovare è spesso 'ricollocare' in mondi possibili diversi. 
Riconciliando la prospettiva di ricerca analitica e relazionale con il tempo, quello storico, in cui la tecnologia è apparsa o appare, ecco che le categorie ideologiche alla base di una vasta serie di studi sulla tecnologia si sciolgono in determinazioni coerenti e sensate che considerano l'economia e le vicissitudini sociali e culturali di un'epoca, non potendo da queste ultime prescindere (un dominio è sempre collocato).
La storia rientra in campo, laddove l'analisi a-storica e a-settica della tecnologia come "essenza dello sviluppo" l'aveva cacciata. E ci rientra non più come teleo-storia e determinismo storico, come freccia del mutamento lineare diretta al futuro, movente in sé e per sé le "umane sorti progressive"; bensì come contesto entro cui un fenomeno quale la tecnologia può trovare il modo di svilupparsi. Così come si possono sviluppare, entro il mondo storico, altre forme espressive umane quali l'arte o il racconto (di fatto anch'esse, per parte loro, sono tecnologie). O i mutamenti del pianeta e di ciò che sta intorno.
Il contesto, che include storia e società, è ciò che consente il fermentare di una serie di idee e di focalizzazioni su aspetti della natura, che costituisce il terreno (potenzialmente) fecondo in cui alcune tecnologie sono 'pronte' a nascere. L'autore precisa bene che la nascita non comporta un impatto netto ed immediato sul circostante: come una sorta di tecno-neotenia, anche la tecnologia, per sopravvivere e, se è il caso, evolvere, deve intrecciarsi con le esigenze ed i bisogni del tempo storico, che accompagna ogni tecnologia verso il proprio destino: la diffusione ed il perfezionamento o la morte.
L'economia è legata a filo doppio con la tecnologia: non esiste una direzione univoca, una sorta di determinismo ora tecno-guidato, ora eco(normo)-guidato. Piuttosto c'è un reciproco rinforzo che attua modificazioni radicali solo quando si raggiunge una massa critica di sapere e di applicazione tecnologica tale da potersi confrontare con la massa di informazioni e pratiche di una economia, localizzata e, inutile dirlo, storicamente individuata.
Come enuncia felicemente l'autore, "i diversi elementi dell'economia (industrie, aziende e prassi commerciali) non adottano il nuovo dominio [tecnologico], piuttosto lo incontrano. Da questo incontro nascono nuovi processi, nuove tecnologie e nuove industrie" (p.134).  Per comprendere il nesso tra economia e tecnologia occorre prendere atto che, in quanto artefatto complesso, l’innovazione tecnologica va oltre l’intenzionalità dei singoli agenti. Il che, ricorda l’economista Cristiano Antonelli nell’introduzione italiana al testo, “permette di arricchire sostanzialmente l’intuizione arrowiana e fornisce un contesto entro il quale l’analisi dell’innovazione tecnologica come forma specifica di azione economica può progredire significativamente”, nonché consente di “afferrare appieno il motore basilare dell’interazione dinamica e autosostenuta fra tecnologia ed innovazione”. È la presa di consapevolezza che il determinismo tecnologico non è in grado di comprendere il ruolo degli agenti innovatori in economia, né è lecito estraniarli nei sistemi predittivi dell’intersezione tra domanda ed offerta. Non si può più accettare che, nell’analisi economica, la tecnologia sia un fattore esogeno. Essa è piuttosto (anche) il prodotto dell’azione economica. Si apre un mondo nuovo…
Tanti altri spunti emergono dal testo, ma è ora di congedarci. Con una specie di sillogismo.
Sintetizza infatti Brian Arthur: "Ogni mezzo per raggiungere uno scopo è una tecnologia".
L'autore si è riproposto di diffondere presso il più ampio pubblico il proprio discorso sulla tecnologia, sulla sua natura ed evoluzione (lo scopo). Il libro (il mezzo) è quindi tecnologia. Che evolve.
Voi l'avete letto cartaceo o in edizione digitale? ;-)

venerdì 15 aprile 2011

LA TRAMA LUCENTE

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Trama: l’etimo del nome veicola il senso di “passare al di là”, “andare oltre”, nonché “formare una tela”, spesso celante punti oscuri (non a caso si dice: “tramava dietro le sue spalle”); nondimeno, la trama è il punto di accesso al complesso, inteso come intreccio di più parti legate tra di loro e dipendenti l’una dall’altra. Con la trama, entriamo dunque nel regno della complessità.
Quella di Anna Maria Testa è però una trama lucente. Quindi che illumina, che mette in risalto elementi altrimenti imbrigliati nella rete di relazioni, dove risultano poco identificabili, intuibili e comprensibili.
La trama lucente” è il tentativo di andare oltre l’insieme di nozioni che la storia ci ha lasciato sulla natura (e la psiche) dell’uomo, al fine di individuare, nel complesso tessuto della psicologia umana, il filo rosso che, qualora esistente, districa la creatività. Creatività che, nella prospettiva dell’autrice, per essere tale deve possedere alcune proprietà essenziali: portare a qualcosa di nuovo, di buono e di utile. Non a caso Anna Maria Testa titola il suo sito NeU, che sta per "Nuovo e Utile", teorie e pratiche della creatività.
Già, perché la creatività è figlia della volontà di agire e, al contempo, è intessuta di un mondo di teorie e di studi che può essere utile (e magari anche nuovo…) conoscere. Un volo sulla storia della creatività è quindi l’incipit del testo che, letteralmente, mappa una mole consistente di teorie, esperimenti, dati e aneddoti lungo secoli di storia, la quale ha riconosciuto ufficialmente la creatività solo di recente, a livello di frame, pur essendo questa stata oggetto di riflessione sin dagli albori dell’emergenza della specie che si definisce sapiens. Insomma, la storia di un’idea che non c’era è quanto l’autrice propone con maestria: suo compito è infatti non solo raccogliere e selezionare teorie e pratiche, il che, di per sé, è già un lungo lavoro. La parte consistente dell’opera è, infatti, collegare quanto raccolto, far brillare il tessuto di reciproche relazioni sincroniche e diacroniche che, della creatività, hanno fatto un oggetto assai complesso e sfaccettato.
Ora, mi si permetta un’osservazione: il lavoro di tessitura è venuto molto bene, perché il testo scorre con quell’impulso lieve eppure intenso che rende gradevolissima la lettura e molto comprensibile il nesso, o meglio, i nessi tra gli elementi del puzzle creativo. Unica pecca è che, nel tessere la tela, il tessuto non è nuovo (vi ricordate il binomio nuovo e utile…). Non è nuovo perché attinge dagli elementi di studio più noti e più comuni, specie per quanto concerne la psicologia sociale e della creatività, propri di un lettore di media cultura. In effetti, nulla che l’autrice ha scritto è stato per me “nuovo” (se escludiamo considerazioni sulla sua autobiografia). Dall’altra, invece, tutto quanto scritto è stato per me molto utile, in quanto ha consolidato legami reticolari (cognitivi ed affettivi) che, pur se già noti e, nella vita quotidiana, utilizzati, è stato interessante rincontrare così coerentemente riorganizzati.
Ecco, diciamo che il testo è un grande apparato organizzativo: se si coglie questo aspetto, merita la lode. Basta guardare alla struttura: che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona.
Che cos’è la creatività: definiamo a larghe maglie il concetto, ammesso che la creatività, quale concetto, funzioni in modo adeguato, dato i limiti del linguaggio verbale. E chiariamo che è plurale: ci sono tante creatività. Ecco perché tante teorie, esperimenti, personaggi, curiosità, indovinelli, aneddoti, e quant’altro da rendere felice il lettore curioso.
Perché ci appartiene: che cosa ci rende, scrive l’autrice, bestialmente creativi? La mente, l’intelligenza, il talento: che cosa sono e, se sono, sono solo per il sapiens o esistono in altro? La creatività, quanto è legata alla biologia, alle neuroscienze, e da lì all’evoluzione, e poi alle teorie della mente, passando per il contesto storico e sociale, vincolo ed essenza stessa per definire qualcosa "creativo"? In questa parte, si vola, dalla testa di homo sapiens, a quella dei nostri coabitanti, si attraversano culture, si sfiorano individui e tratti personali. Con una unica precauzione nel volo: il rispetto, che è essenza della comprensione del e nel mondo creativo.
Come funziona: credo che qui AnnaMaria Testa si sia divertita un sacco! Cercare di spiegare come funziona la parte di sé che ci rende vivi, deve essere stata una esperienza affascinante. E il racconto ne risente in positivo. Tante cose da ricordare per tracciare una delle possibili trame. Tanti nodi da sciogliere per imbrogliarli in nuovi modi. Le trappole, i test, le tecniche che può incontrare chi si interessa di creatività. Che, in quanto processo, si può vedere sotto molti punti di vista. Alcuni li vedrete a fondo di questa recensione. Miliardi di altri li vediamo ogni giorno intorno a noi.


Ecco, una recensione a questo testo io la fermo qui. Non perché non ci sia una quantità di altri modi per continuare. E di materiali da cui partire per lanciare un lampo sul vasto territorio del testo. Piuttosto per un’altra ragione: provate a mettervi di fronte a uno specchio indossando un tessuto lucente. Ognuno si vedrebbe a suo modo. Ognuno coglierebbe particolari del vestito diversi e diversa importanza attribuirebbe ad essi, in relazione al proprio vissuto. Ognuno deciderebbe come farsi aggiustare il vestito. O lo farebbe, mentalmente o materialmente, da sé. Non ci possiamo fare nulla: siamo creativi. E che si nasca, o lo si diventi, non conta poi molto.

Avevo promesso qualche espressione del processo creativo. Ecco qualche meta-testo su “La Trama Lucente”:

Non possono mancare le mappe mentali di Roberta Buzzacchino, che puoi trovare sul suo “mappe_mentali_blog”.
Una sul capitolo 14 “La creatività come processo”:
http://mappementaliblog.blogspot.com/2010/11/creativita-luminosa.html

Non può mancare neanche la bella recensione di Giovanna Cosenza, sul suo blog “DIS.AMB.IGUANDO”:

http://giovannacosenza.wordpress.com/2010/06/16/la-trama-lucente/

E… perché no, ecco un’intervista all’autrice sul sito Lipperatura di Loredana Lipperini:

http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2010/09/08/annamaria-testa-e-la-creativita/


Perché, in fondo, la creatività è Reticolare! 

mercoledì 13 aprile 2011

FATTORE INTERNET- L'impatto del web sull'economia italiana

Un bellissimo video che racconta Internet in Italia. Non solo un fenomeno di cui avere paura (come troppo spesso ci raccontano i media), ma una grande opportunità di crescita economica e sociale.
E ricordo, con Shakespeare, che è "la paura che ci rende traditori [verso noi stessi]"...


sabato 9 aprile 2011

INDIGNATEVI!

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Mia Premessa per circoscrive il senso dell’indignazione.
Indignare, dal latino “in-dignàri”, significa affermare il contrario di "stimare degno". Si "stima degno", "dicevole", ciò che si trova di "ap-prezzabile" nel comportamento altrui. Pertanto è indegno quel che non si "ap-prezza", ossia che perde, agli occhi di chi giudica, il proprio valore, non solo in senso monetario, ovviamente, data la polisemia del termine "valore".
Questa è una premessa indispensabile. È infatti evidente che si apprezza ciò che accade "con merito": non a caso, il merito e l'onore devono essere "guadagnati" (occorre dare loro un prezzo, "ap-prezzarli"). E, di conseguenza, l'in-dignazione deve emergere ogniqualvolta un qualcosa di indegno viene, "in-giustamente", "ap-prezzato": dotato di valore che non possiede. L'in-dignazione risulta sinonimo di "giustizia", laddove l'essere giusto è commisurato all'essere degno di un valore riconosciuto tale e non regalato o generato invalidando altri valori. Mi indigno se vedo una ingiustizia, in quanto la stessa non è degna di rispetto, avendo violato il senso stesso di valore. Se non ci si indigna più, allora tutto è "giusto" ed accettabile: lo scontro di valori opposti si fonde nell'apatia valoriale. Indifferenza al valore. Indifferenza al senso. In-sensibilità. E l’indifferenza, come sostiene l’autore di “Indignatevi!”, è ‘il peggiore degli atteggiamenti’, perché 'è una delle componenti essenziali dell’umano, senza di che non si dà ‘la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue’.
Che cosa vuole dirci, dunque, Stéphane Hessel, a ’93 anni’, nel suo pamphlet "Indigniamoci!"?
Firmatario dell’“Appello dei Resistenti alle giovani generazioni”, pronunciato a Parigi alla Casa dell’America Latina l’8 marzo 2004, diplomatico e capogabinetto di Henri Laugier, quest’ultimo Segretario della Commissione dei Diritti dell’Uomo, Hessel, dopo una lunga esperienza nella Resistenza francese del CNR, si trova impegnato nei lavori volti all'elaborazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.
È una esperienza formante che, cumulata con le tante altre esperienze “formanti” della sua vita, definisce la logica di impegno sociale e civile che viene riproposta, in estrema sintesi, in “Indignatevi!”. Sì, perché “Indignatevi!” raccoglie, in una trentina di pagine (le altre riportano il citato Appello del 2004 e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), i punti fermi che l’autore considera essenziale trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni. Crollo dei sistemi di welfare state, espandersi del potere finanziario, guerre e migrazioni della povertà cui le Nazioni Unite e l’Europa non reagiscono come da loro mandato, la perversione dei media…  il motore per non passare tutto sotto anestetizzante silenzio è, per l’autore, l’indignazione. L’indignazione ha consentito la Resistenza, ma Hessel ben sa che di tempo ne è passato e, incontrando nelle classi i ragazzi di oggi, è lucido nell’affermare: “voi non avete le ragioni evidenti che avevamo noi per decidere di agire”. Questa consapevolezza storica è il fulcro potente che regge la mozione di indignazione promossa nelle poche pagine del pamphlet. All’epoca della Seconda grande guerra, per alcuni, l’impegno civile e l’indignazione per ciò che accadeva intorno era quasi scontato o, comunque, riconoscibile. Oggi, nel nuovo Millennio, non è più così semplice: gli eventi sono ovattati e gli stimoli moltiplicati. La giustizia, come collegato dell’indignazione, può presentarsi come elemento confuso. Del resto, scrive l’autore, “il nostro è un mondo vasto, del quale intuiamo la non indipendenza. Viviamo in un contesto di interconnettività senza precedenti. […] esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo, scavare. Ai giovani io dico: cercate e troverete”.  Alcuni esempi illustrano la via alla ricerca e alla reazione indignata. E le modalità cui fare fronte a mali evidenti dei nostri decenni.
Dal canto suo, Hessel, di origine ebrea, si muove molto criticamente verso il governo israeliano e gli atti disumani ed omicidi nei confronti dei palestinesi. Narra della violenza e la comprende, per giungere alla conclusione che la non violenza (attuata in modo concreto e visibile) potrebbe essere la via migliore, nel lungo periodo. Ma Hessen non è Gandhi, non è un idealista: conviene sul fatto che il terrorismo, da ambo i lati di un conflitto, “è una forma di esasperazione. E che questa esasperazione è un termine negativo. Non bisognerebbe esa-sperare, bensì sperare. L’esasperazione è un rifiuto della speranza. La si può comprendere,  […] quasi è naturale, ma non per questo accettare”. Hessen si congeda con un invito all’insurrezione pacifica e con la speranza. Una speranza indignata. Perché altrimenti essa è suono vuoto e preclude ogni azione, nell’attesa di un salvatore. Che poi magari si presenterà come il prossimo dittatore.