venerdì 20 aprile 2012

ETIMO-LOGICANDO COLLEGA(MENTI)

Dal Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, consultabile on-line, alla voce 'collega' (il sostantivo, non il verbo appiccicoso, per intendersi) ci sta:
Lat. "Collèga" da "Collígere", riunire, raccogliere insieme, composto di ‘com’=’cum’, insieme, e ‘Lègere’, raccogliere, radunare. - Compagno in alcun ufficio o nell'esercizio di qualche nobile professione.
Ora, l'etimologia è chiara: il collega è un tizio o una tizia con cui sei stato raccolto insieme o fisicamente, in un luogo, tipo un'ufficio; o, in senso lato, in un gruppo anche non fisicamente uni-collocato che esercita una qualche nobile professione.
Nobile, perché una volta il professionista aveva anche di questo, per noi un po’ logoro, aggettivo, che ora appare quasi uno sberleffo autoironico inserito da un diavoletto monello nella definizione di collega.

Prendiamo un dizionario più recente, che so, l'Hoepli. Ecco qui:
Collega - [col-lè-ga] - s.m. e f. (pl. m. -ghi, f. -ghe) - 1 Chi esercita la medesima professione o arte o mestiere: siamo colleghi; onorevoli colleghi .2 Compagno di lavoro, spec. dello stesso.

Già sparisce il nobile aggettivo. Grottescamente un'eco risuona nell'esempio proposto dal dizionario: 'onorevoli' colleghi, che, in genere, è l'appellativo utilizzato dal presidente di Camera o Senato per richiamare (al)l'attenzione (de)i nostri italici rappresentanti. Che, dati i tempi, nobili non lo sono più; onorevoli, bé, diciamo non nel senso etimologico del termine. Forse in un altro senso, quello della legge dell'onore che si rispetta nella malavita rispettabile. Ma questi sono dettagli.

Torniamo al nostro collega di partenza.

Il dizionario ci dice che condivide qualcosa con noi: uno spazio o una attività o, il che va per la maggiore, un mix di entrambi. Tu ed il collega siete in collegamento con il lavoro che fate e con il luogo (fisico o mediato) in cui lavorate. O in cui esercitate la vostra professione che, lasciando da parte quella di fede, significa un lavoro che si esercita pubblicamente, in cui si ha fede (ma non quella implicata prima), per cui siete pronti ad osservare deontologie e a manifestare, insieme, appunto, ai colleghi, una aperta ed esplicita lealtà e, fors'anche, una certa riverenza.

Bene.

Il collegamento che si ha con il collega, naturalmente, non è un rapporto naturale (può diventare sentimentale, ma è un'altra, complicata, faccenda). Si tratta, piuttosto, di un rapporto presidiato dal lavoro o professione in cui si è colleghi. E', per dir così, naturalmente artificiale. Già da qui si può inferire che la base del rapporto con il collega è l'assenza di una base di collegamento che si presenti diversa dalla finalità del lavoro e della professione, base che consiste nell’ottenere qualcosa in cambio della propria opera. Tipo -ma non generalizziamo troppo- uno stipendio o il pagamento di una parcella o anche cose quali la gratificazione e via astraendo, che però sono meno, come dire, basilari, che so, rispetto ad una solida base stipendiale.

Il collegamento che si ha con il collega è quindi un collegamento derivato (o indiretto), cioè che proviene e nasce dall'esigenza di una cosa più ampia che si chiama organizzazione o società o roba simile. In cui i colleghi, di diverso livello, sono collegati con te da basi diverse ancora, tipo quelle dei pianerottoli a scendere o a salire, che sono, per dir così, una rappresentazione di una gerarchia collegata da saliscendi.

Possiamo chiamare colleghi i colleghi che si collegano a noi con collegamenti a gerarchie diverse? Sicuramente sì, da un lato, in quanto la gerarchia non preclude il collegamento. Che avviene, naturalmente, saliscendendo piani diversi, nello spazio e nella logica relazionale. No, dall'altro lato, se vogliamo limitare la definizione a chi esegue attività simili alle nostre, poste cioè 'sullo stesso piano'.

Alla base di tutti i collegamenti citati, non naturali, resta comunque la finalità di ciò che, appunto, accomuna i diversi colleghi: e cioè il prestito di qualcosa di sé per ottenere (un collegamento con) un mezzo economico in grado di garantire, in primis, la sussistenza; in secundis, bé, tante altre cose.

Dunque, se il collegamento è di tipo finalistico, verso un principio unificatore che sta nella sussistenza, quello tra colleghi potrebbe essere diverso da un collegamento collaborativo? Bé, no, da un certo punto di vista, perché la sussistenza serve a (quasi) tutti. , da un altro punto di vista, perché, oltre alla sussistenza, un collega vuole possedere questo, un altro desidera quest'altro, un terzo si differenzia ancora in termini di scopo. Il collegamento, in questo senso, non può che essere identificato anche come competitivo.

La naturalità del collegamento tra colleghi si riduce quindi al primo etimo esaminato (in sé non finalistico, perché, naturalmente, si può essere colleghi nel fare nulla…): l'essere stati messi insieme per realizzare una attività più o meno collegata. Il collega è un collegato, cioè, nel collegamento, è in parte un soggetto passivo. Cioè è scelto e poi collegato: raramente può scegliere il collegamento e la collocazione. Ed è meglio così, perché, in caso contrario, gli scopi diversi di ognuno eserciterebbero una forza centrifuga tale da rendere impossibile ed impensabile ogni collegamento, ogni organizzazione cooptativa o, se va bene, collaborativa, in ogni caso produttiva.
Per questo non ci dobbiamo aspettare “il mondo” dai colleghi. Sono come noi, pezzi di esistenza che si intersecano con il nostro pezzo di esistenza, in un certo luogo (materiale o virtuale) e per un certo tempo (per noi esseri umani, per fortuna, mai infinito!).

L'intersezione, buona o cattiva che sia, nobile o meno che sia, onorevole o disdicevole che si presenti, è una associazione di scopo (non mi richiamo qui al senso sociologico del termine, in quanto precludo, in questo discorso, una coscienza comune, collegata), una associazione fondamentalmente etero-diretta dallo scopo sussistenziale o, più largamente, esistenziale di una struttura che ‘sta intorno’.

Se sono eterodiretto, mica ci sta che debba io auto-dirigermi verso il prossimo, eliminando tutte le disparità e differenze. Si mira all'accordo, al collegamento mediamente produttivo, alla concatenazione di attività preferibilmente non ignobili. Attenzione! Non si tratta di compromesso. Si tratta di collegamento con la realtà. Non è un granché, lo so, ma la vita stessa non è (nel maggiore dei casi) un granchè.

E poi, diciamocelo, nel mondo del collegamento eterodiretto, è vero, alcuni sono colleghi.
Ma altri sono anche amici o amiche: scusate se è poco!

mercoledì 4 aprile 2012

GIOCHI DI POTERE

"Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un'autorità su come far pensare la gente" (Kane, Quarto Potere)
"Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!" (Howard Beale, Quinto Potere)
"Insomma: e se Internet rischiasse in qualche caso di trasformarsi in una specie di 'Sesto potere', ancora più potente del Quarto di Orson Welles e del Quinto di Sidney Lumet?" (Alessandro Gilioli, L'Espresso, 2007
Non sono certo del Quarto e del Quinto, ma sul Sesto Potere non ho dubbi: la sua potenza è proporzionale alla dose di realismo con cui viene espresso dalla gente. Perché ci vuole la gente, quella reale, che si attivi ed eserciti nel mondo reale i clic del Sesto Potere. Altrimenti si riduce ad un abito, che mal si adatta alla realtà su cui si vuole, con le parole, incidere. Ammesso poi che le parole possano emendare porzioni del reale. Limitiamoci a constatare che quelle 'scomode' sono parole che producono reazioni nel reale. Producono l'agire delle persone vere. Perché tendenzialmente si avvicinano a pro-porre una verità che, ancora adesso, a parte per qualche nichilista post-moderno, induce a ragionare sul vero e sul falso di quanto detto o scritto, a porre dubbi e domande, a cercare una articolazione che verifichi o falsifichi la proposizione scritta. Certo, non ogni proposizione scritta. Solo quella che in sé tocca 'code di paglia' reali. Le quali, tendenzialmente, il Potere -diciamo quello semanticamente più tendente al 'Quarto'- deve circoscrivere o, ancora meglio, sopprimere, tacitare, rendere silenti. S-mentire mentendo.
Epperò. Ci sta un però. Anzi tre 'però'. Il Potere, infatti, non consiste (solo) nel far pensare in un certo modo la gente. Neanche nel far passare qualcuno "pazzo profeta dell'etere (del 'wifi', della 'cloud'...)", al fine di relegare le parole della realtà nel mondo lontano e confuso della follia, cioè di un testo senza-senso o di un senso in- e im-proprio per il Potere. E non è neppure "persuasione occulta e manipolazione dei cervelli", sibilo di Internet nelle orecchie del Mondo.
Il Potere, che si attiva solo quando la parola si avvicina ad una realtà pensata e temuta, in quanto reale, è piuttosto un sinonimo di quello che un tempo (forse ancora oggi, ma con meno pregnanza) è stato il peccato capitale per eccellenza: la Superbia. La Superbia, quella che è "originata comunemente dalla presenza di due personalità critiche: apparenza e violenza, esagerata stima di sé e dei propri meriti (reali o presunti), manifestata con un continuo senso di superiorità verso gli altri" (cito da Albanesi.it). Senso di superiorità che si deve esercitare quale imperativo morale del superbo, apparente affermazione di un'etica del dovere dei singoli inferiori nei confronti di enti(tà) superiori, cui tutto, o gran parte, è dovuto.


Da qui non occorre molto per capire che al Potere, che si è immedesimato con la Superbia, arrogandosi il diritto assoluto di dire, di fare parola, di registrare violazioni, supposte tali, del reale inferiore, anch'esso pre-supposto oggetto di s-mentimento, l'unica vera parola e azione che si deve opporre, nell'agire individuale, è il Coraggio.

Bel discorso. Peccato che:


"Come dice Don Abbondio, 
se uno il coraggio non ce l’ha, 
non se lo può dare".