Dal Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, consultabile on-line, alla voce 'collega' (il sostantivo, non il verbo appiccicoso, per intendersi) ci sta:
Lat. "Collèga" da "Collígere", riunire, raccogliere insieme, composto di ‘com’=’cum’, insieme, e ‘Lègere’, raccogliere, radunare. - Compagno in alcun ufficio o nell'esercizio di qualche nobile professione.
Ora, l'etimologia è chiara: il collega è un tizio o una tizia con cui sei stato raccolto insieme o fisicamente, in un luogo, tipo un'ufficio; o, in senso lato, in un gruppo anche non fisicamente uni-collocato che esercita una qualche nobile professione.
Nobile, perché una volta il professionista aveva anche di questo, per noi un po’ logoro, aggettivo, che ora appare quasi uno sberleffo autoironico inserito da un diavoletto monello nella definizione di collega.
Prendiamo un dizionario più recente, che so, l'Hoepli. Ecco qui:
Collega - [col-lè-ga] - s.m. e f. (pl. m. -ghi, f. -ghe) - 1 Chi esercita la medesima professione o arte o mestiere: siamo colleghi; onorevoli colleghi .2 Compagno di lavoro, spec. dello stesso.
Già sparisce il nobile aggettivo. Grottescamente un'eco risuona nell'esempio proposto dal dizionario: 'onorevoli' colleghi, che, in genere, è l'appellativo utilizzato dal presidente di Camera o Senato per richiamare (al)l'attenzione (de)i nostri italici rappresentanti. Che, dati i tempi, nobili non lo sono più; onorevoli, bé, diciamo non nel senso etimologico del termine. Forse in un altro senso, quello della legge dell'onore che si rispetta nella malavita rispettabile. Ma questi sono dettagli.
Torniamo al nostro collega di partenza.
Bene.
Il collegamento che si ha con il collega, naturalmente, non è un rapporto naturale (può diventare sentimentale, ma è un'altra, complicata, faccenda). Si tratta, piuttosto, di un rapporto presidiato dal lavoro o professione in cui si è colleghi. E', per dir così, naturalmente artificiale. Già da qui si può inferire che la base del rapporto con il collega è l'assenza di una base di collegamento che si presenti diversa dalla finalità del lavoro e della professione, base che consiste nell’ottenere qualcosa in cambio della propria opera. Tipo -ma non generalizziamo troppo- uno stipendio o il pagamento di una parcella o anche cose quali la gratificazione e via astraendo, che però sono meno, come dire, basilari, che so, rispetto ad una solida base stipendiale.
Il collegamento che si ha con il collega è quindi un collegamento derivato (o indiretto), cioè che proviene e nasce dall'esigenza di una cosa più ampia che si chiama organizzazione o società o roba simile. In cui i colleghi, di diverso livello, sono collegati con te da basi diverse ancora, tipo quelle dei pianerottoli a scendere o a salire, che sono, per dir così, una rappresentazione di una gerarchia collegata da saliscendi.
Possiamo chiamare colleghi i colleghi che si collegano a noi con collegamenti a gerarchie diverse? Sicuramente sì, da un lato, in quanto la gerarchia non preclude il collegamento. Che avviene, naturalmente, saliscendendo piani diversi, nello spazio e nella logica relazionale. No, dall'altro lato, se vogliamo limitare la definizione a chi esegue attività simili alle nostre, poste cioè 'sullo stesso piano'.
Alla base di tutti i collegamenti citati, non naturali, resta comunque la finalità di ciò che, appunto, accomuna i diversi colleghi: e cioè il prestito di qualcosa di sé per ottenere (un collegamento con) un mezzo economico in grado di garantire, in primis, la sussistenza; in secundis, bé, tante altre cose.
Dunque, se il collegamento è di tipo finalistico, verso un principio unificatore che sta nella sussistenza, quello tra colleghi potrebbe essere diverso da un collegamento collaborativo? Bé, no, da un certo punto di vista, perché la sussistenza serve a (quasi) tutti. Sì, da un altro punto di vista, perché, oltre alla sussistenza, un collega vuole possedere questo, un altro desidera quest'altro, un terzo si differenzia ancora in termini di scopo. Il collegamento, in questo senso, non può che essere identificato anche come competitivo.
La naturalità del collegamento tra colleghi si riduce quindi al primo etimo esaminato (in sé non finalistico, perché, naturalmente, si può essere colleghi nel fare nulla…): l'essere stati messi insieme per realizzare una attività più o meno collegata. Il collega è un collegato, cioè, nel collegamento, è in parte un soggetto passivo. Cioè è scelto e poi collegato: raramente può scegliere il collegamento e la collocazione. Ed è meglio così, perché, in caso contrario, gli scopi diversi di ognuno eserciterebbero una forza centrifuga tale da rendere impossibile ed impensabile ogni collegamento, ogni organizzazione cooptativa o, se va bene, collaborativa, in ogni caso produttiva.
Per questo non ci dobbiamo aspettare “il mondo” dai colleghi. Sono come noi, pezzi di esistenza che si intersecano con il nostro pezzo di esistenza, in un certo luogo (materiale o virtuale) e per un certo tempo (per noi esseri umani, per fortuna, mai infinito!).
L'intersezione, buona o cattiva che sia, nobile o meno che sia, onorevole o disdicevole che si presenti, è una associazione di scopo (non mi richiamo qui al senso sociologico del termine, in quanto precludo, in questo discorso, una coscienza comune, collegata), una associazione fondamentalmente etero-diretta dallo scopo sussistenziale o, più largamente, esistenziale di una struttura che ‘sta intorno’.
Se sono eterodiretto, mica ci sta che debba io auto-dirigermi verso il prossimo, eliminando tutte le disparità e differenze. Si mira all'accordo, al collegamento mediamente produttivo, alla concatenazione di attività preferibilmente non ignobili. Attenzione! Non si tratta di compromesso. Si tratta di collegamento con la realtà. Non è un granché, lo so, ma la vita stessa non è (nel maggiore dei casi) un granchè.
E poi, diciamocelo, nel mondo del collegamento eterodiretto, è vero, alcuni sono colleghi.
Ma altri sono anche amici o amiche: scusate se è poco!
Ma altri sono anche amici o amiche: scusate se è poco!